La testimonianza del figlio dell’intellettuale biancavillese Gerardo Sangiorgio agli studenti dell’Istituto “Benedetto Radice” di Bronte, tra ricordi e riflessioni sul valore della memoria
Alessandro Druga
«Non si è trattato tanto di tornare liberi, ma di ritornare uomini». Così Placido Sangiorgio, attualmente insegnante a Firenze, che proprio al “Benedetto Radice” di Bronte concluse il suo anno di prova, qualche giorno fa ha riportato agli studenti dell’Istituto ai piedi dell’Etna le parole del padre Gerardo Sangiorgio, intellettuale di Biancavilla (CT) imprigionato nei lager nazisti perché ebbe il coraggio di opporsi alla Repubblica di Salò (voluta dalla Germania di Hitler e guidata da Mussolini nel 1943, dopo l’armistizio di Cassibile). Intervistato, con un sorriso generoso che non ha celato in alcuni passaggi l’emozione sempre viva per il vissuto del padre, ci ha raccontato questa storia, non senza riflessioni sul presente.
Perché suo padre venne deportato?
«Mio padre usciva dal liceo classico, era appena entrato all’università quando venne reclutato nel corpo militare dei VU, volontari universitari che di fatto volontari non erano ma si voleva dare all’estero l’idea che i giovani italiani amassero la guerra. Quando si diffuse la notizia dell’armistizio, mi raccontò che quella notte in caserma si abbracciarono forte fin quando non vennero svegliati dai cannoneggiamenti. E mi disse: Un soldato tedesco gridava in modo lacerante Raus, Raus. Allora si vide costretto per la prima volta a fare una scelta: seguire la repubblica di Salò sostenendo i fascisti o opporsi. Lui prese una scelta etica dettata dal credo cristiano: scelse la seconda manifestando il suo dissenso. Così venne deportato nei campi di concentramento in Germania in quanto dissidente politico».
Qual è la prima cosa che suo padre volle fare una volta libero?
«Per tutta la mia famiglia fu molto difficile. Sapevano che aveva compiuto un atto coraggioso ma era difficile non trasformare il dolore in rabbia. Mio nonno andava sempre alla fermata della circumetnea nella speranza che mio padre tornasse. Un giorno però arrivò una lettera firmata dalla sorella di mia madre: Il miracolo è avvenuto. Mio padre era finalmente stato liberato e una volta libero disse: Continuerò a studiare perché lo studio è l’unica salvezza. Lo farò come devozione alla bellezza. Mio padre durante la sua prigionia, mentre svolgeva 16 ore giornaliere di lavoro forzato, cercava di ricordare e di ripetere nella sua mente tutti i versi che sapeva della Divina Commedia: per lui era far germogliare ciò che gli aveva permesso di sopravvivere nello spirito. Non appena tornò finalmente a casa e ricevette tutte le cure necessarie si mise a studiare per riuscire a prendere la laurea che tanto desiderava. La prima volta che si presentò ai suoi professori universitari gli dissero che non lo avevano visto seguire le lezioni. Lui provò a spiegare che era stato deportato ma gli risposero che non erano certi avrebbero avuto il tempo di esaminarlo. Alla fine ebbe anche la lode in quell’esame e nel marzo del 1946 conseguì la laurea. Questo immagino fosse il suo primo desiderio».
Quali emozioni ha provato appena suo padre le ha raccontato quello che aveva vissuto?
«Io sono figlio della maturità, nacqui quando mio padre aveva 57 anni. Come ogni bambino anche io facevo i miei capricci: quando mi lamentavo che un cibo non mi piaceva mio padre rispondeva sempre, anche con un po’ di ironia: Magari lo avessi avuto io in Germania. Aveva l’usanza persino di bollire il poco pane che rimaneva, per lui il cibo era sacro. Era rimasto provato, lo capì dopo. Nelle sue memorie scrisse che quando in battaglia vide un soldato morto accasciato a terra in quel momento non aveva visto il nemico ma un uomo che nel fiore dell’età era morto».
Cosa ne pensa delle nuove manifestazioni di proselitismo verso il fascismo come quella verificatasi qualche settimana fa ad Acca Larenzia (Roma)?
«La voglio pensare in modo socratico: nasce tutto a causa dell’ignoranza e della mancanza di conoscenza di testimonianze. L’unico modo con cui possiamo fermare tutto ciò sono la presenza di più testimonianze ma soprattutto con l’istruzione».
All’epoca di quella coraggiosa scelta suo padre aveva qualche anno in più degli studenti di questa scuola. Quale consiglio dà loro affinché possano affrontare in modo etico le scelte?
«A 40 kg nei campi di concentramento si veniva uccisi. Mio padre si è salvato perché pesava 800 grammi in più. Mi raccontava che da una finestra vicino al lager dove era internato veniva calato un sacchetto di spazzatura. Spesso nascosta tra i rifiuti trovava una fettina di pane ed è proprio a quella fettina di pane che doveva gli 800 grammi in più che lo salvarono. Quando giunsero gli americani a liberarlo suonò in quella casa. Si capiva che ci fosse qualcuno dentro ma nessuno gli aprì. Una donna, un bambino, un ufficiale mosso a compassione: non seppe mai chi c’era dietro quella mano, la mano della Provvidenza. Ma per certo quel qualcuno aveva agito nel bene per il bene. Ai ragazzi dico: anche in questo presente disorientante cercate il bene per il bene. In questo modo farete sempre la scelta giusta».
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